Pubblichiamo l'omelia di don Stefano per la Festa di San Giuseppe

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Lettera alla Comunità per la Festa di San Giuseppe

19 marzo 2024

Tratta da Mt 1,18-24

Festeggiare il patrono non è semplicemente festeggiare un santo, magari ricordandone la vita, le doti o i miracoli. È piuttosto guardare alla sua interiorità e lì, nel suo cuore, trovare i pilastri sui quali reggere le nostre relazioni comunitarie: quella con Dio e quelle tra noi.

Se è così, verrebbe da dire che non siamo molto fortunati perché non è facile definire quello che San Giuseppe aveva nel cuore. Anzi, sembra quasi impossibile. I Vangeli non raccontano molto di lui e – soprattutto – lui non dice niente di sé. Nei pochi episodi nei quali compare è perennemente in silenzio: non esprime mai a parole, quello che prova o pensa nell’intimo.

In questo Giuseppe è diverso dagli uomini del suo tempo, che possiamo immaginare reggessero la famiglia e la casa con forza anche autoritaria: neppure quando ritrova Gesù dodicenne a Gerusalemme, dopo tre giorni di preoccupata ricerca, dice una parola.

Tuttavia, quando Matteo racconta (non com’è stato concepito ma) com’è stato generato Gesù, com’è stato messo al mondo e accompagnato a vivere, non descrive l’apparizione dell’angelo a Maria ma il sogno di Giuseppe. Non solo ma in tutti e quattro i Vangeli, Gesù è chiamato “il figlio di Giuseppe”. Non c’è dubbio, insomma, che sia stato lui a dare a Gesù l’impronta principale, a trasmettergli la struttura umana primaria, ad istruirlo per primo nella fede.

Poterlo avere come patrono è un dono e una garanzia di una buona riuscita, come uomini e donne e come credenti.

Anche se gli evangelisti dicono poco di lui, quel poco è sempre denso di significato. Dal Vangelo che abbiamo ascoltato – ad esempio – emergono quattro elementi che possono illuminare il nostro modo di essere comunità.

Anzitutto Giuseppe è descritto come un uomo giusto: la sua futura sposa sembra essere un’adultera, i fatti dicono questo ma lui “non voleva accusarla e pensò di ripudiarla in segreto”. Non è la legge che gli chiede di farlo – anzi, la legge gli direbbe di accusarla pubblicamente e farla lapidare – è il suo cuore di uomo giusto. Per Giuseppe essere giusto significa amare con tutti i mezzi che la vita gli consente. Basterebbe questo a farne un faro, in un tempo in cui troppo spesso sentiamo parlare di uomini violenti con le donne: che siano mogli, compagne o fidanzate.

E questo amore che Giuseppe sa vivere, non è un amore che nasce spontaneo, un puro istinto. Giuseppe è un uomo che si prende del tempo per “con-siderare”. “Mentre stava considerando queste cose” dice il Vangelo: anche davanti a situazioni che sembrano chiare e a leggi che propongono una soluzione altrettanto chiara, Giuseppe considera altre possibilità. Considerare viene dal latino cum-sidera e non significa semplicemente riflettere ma osservare attentamente, scrutare e farlo guardando in alto, guardando cum sidera, con le stelle: significa mettere tutto in un panorama più alto e più ampio. Ed è guardando e pensando così, che forse Giuseppe ha iniziato a considerare che la lapidazione non avrebbe risolto niente e soprattutto non avrebbe salvato la vita che Maria portava nel grembo e che era una vita innocente. Non possiamo dire con certezza che lo abbia pensato lui ma iniziamo a pensarlo noi stando davanti al suo ennesimo silenzio e, facendo così, iniziamo a diventare come lui: gente che pensa e che pensa nell’orizzonte alto e grande dell’amore.

È questa la forza dei silenzi di Giuseppe, quelli che ha usato anche con Gesù: ti lasciano uno spazio perché tu inizi a pensare, a considerare, ad andare oltre la legge e le usanze, verso la verità che Dio ha scritto dentro di te.

Giuseppe è un uomo che cerca di amare, che per amare si prende il tempo di considerare e che poi anche accoglie e ascolta la Parola che Dio gli offre attraverso una mediazione. Non è la voce diretta di Dio quella che sente, com’è stato per Mosè dal roveto o per Samuele, che si è sentito chiamare nella notte, o per San Paolo che si è sentito dire “sono Gesù che tu perseguiti”. È la voce di un angelo, di un inviato, di un messaggero, di un mediatore, ma sono parole che evidentemente risuonano in Giuseppe come vere, come capaci di fare luce. E lui le ascolta e le accoglie.

Infine, Giuseppe è uno che quando ha compreso la Parola la fa: la mette in pratica come fosse un comando. “Quando si destò dal sonno fece come gli aveva ordinato l’angelo” dice il testo; ma non del tutto è esatto dire che fa “quello che gli aveva ordinato l’angelo”: l’angelo non glielo ha ordinato, gli ha detto “non temere di farlo” ma lo ha lasciato completamente libero. È lui, Giuseppe, che ascolta la Parola e la prende come un ordine: è lui che davanti a quello che la Parola gli mette nel cuore non vede altra strada che fare e fare subito. Sarà così nel secondo sogno: si alzerà nella notte e partirà per l’Egitto. Sarà così quando lo stesso angelo lo avviserà della morte di Erode e gli dirà di tornare nella terra di Israele. È il suo carattere, è la sua struttura interiore: la stessa che ritroviamo in Gesù.

Il fatto è che quella Parola gli rimanda anzitutto la sua identità, gli ricorda chi è: “Giuseppe, figlio di Davide”. È della stirpe di Davide, ha un sangue regale dentro di sé. Come Davide ha fatto i suoi errori ma è rimasto un grande re per aver sempre saputo ritrovare la sua relazione con Dio e ripartire ogni volta, così può essere lui, Giuseppe: può stare davanti alla vita con la libertà di un re e non da suddito.

Poggiando su questa consapevolezza, Giuseppe ha il coraggio di lasciarsi portare dalla Parola che ascolta fuori dagli schemi.

Accoglie un figlio che non è suo e lo fa crescere come figlio suo fino in fondo.

Quando deve decidere dove andare ad abitare, dove crescere il Figlio di Dio, non va a Gerusalemme, magari vicino al tempio, ma fuori, va a Nazaret – da dove, si diceva, “non può venire niente di buono”; “non sorge nessun profeta” – perché ha imparato che Dio è così: è sempre “fuori”, al di là dei pensieri e degli scemi umani.

Accetta di essere un padre che da un lato ha qualcosa da insegnare al proprio figlio e dall’altro ha molto da imparare. Quando ritrova Gesù nella sinagoga e lo sente parlare ai dottori della legge, tace non perché è timido ma perché – in un mondo retto dagli adulti – accetta di essere un adulto che segue i ritmi e i pensieri di un giovane e che non pretende il contrario.

In fondo, Giuseppe accetta che credere non sia un modo per stare più tranquilli, anzi, sia qualcosa che ti smuove, ti fa alzare all’improvviso, ti scombussola la vita.

In questo senso non è indifferente che il titolo della nostra Parrocchia sia San Giuseppe fuori le mura: fuori le mura non è semplicemente un complemento di luogo, non indica una posizione geografica! Dice una posizione del cuore, al contempo obbediente e libero: questo modo di stare davanti alla vita, rimanendo fuori dagli schemi usuali, che è stato di Giuseppe e chiede di essere il nostro.

In un tempo di cambiamento, fosse anche epocale, avere San Giuseppe come patrono dovrebbe darci libertà, serenità e coraggio, poiché sappiamo di essere sotto la protezione di un uomo che non semplicemente ha vissuto ma ha condotto il più grande cambiamento della storia: quello sì che è stato un cambiamento epocale!

Averlo come patrono dovrebbe spingerci ad amare e ad amarci, ciascuno come può ma fino in fondo. A con-siderare, a pensare guardando in alto e provare e trovare vie nuove senza ripetere semplicemente il passato. A tenere al centro di tutto la Parola non perché sia una fissa dei parroci ma perché questo è quello che San Giuseppe ci invita a fare con la sua storia e i suoi modi.

Averlo come patrono dovrebbe sollecitarci a fare quello che la Parola ci suggerisce dopo un ascolto profondo e serio e non quello che semplicemente sembra corretto a noi.

Non è questione di buona volontà o di sforzi personali, è questione di un’appartenenza del cuore.

Aiutaci, Giuseppe, ad essere un riferimento per il nostro quartiere, per la nostra città, perché chi passa da questa chiesa per cercare un po' di ristoro possa trovare una comunità capace di trasmettere la bellezza del presente e la fiducia nel futuro.